lunedì 28 settembre 2015

L'interrogatorio (I)

Iniziamo il settimo capitolo, L'interrogatorio, con Villefort che deve lasciare la sua cena di fidanzamento per andare a rovinare quella di qualcun altro... O forse no? C'è speranza per questo
opportunista? Chi vivrà vedrà! (NO)


Appena uscito dalla sala da pranzo, Villefort lasciò cadere la sua maschera allegra per assumere quella dell’aria grave di un uomo chiamato al sommo compito di pronunciarsi sulla vita di un suo simile. Ora, malgrado la mobilità della sua fisionomia, mobilità che il sostituto aveva studiato più di una volta, come deve fare un buon attore, davanti allo specchio, questa volta ci volle un terribile sforzo per aggrottare le sopracciglia e rendere più seri i lineamenti. Trascurando il ricordo della linea politica seguita dal padre, che se non completamente dissociato dalla sua persona potrebbe essergli di intralcio per il futuro, Gérard de Villefort era felice in quel momento quanto è dato di essere a un uomo.
Già ricco d’orgini, a ventisette anni occupava un posto elevato nella magistratura e stava per sposare una bella ragazza che amava, non con passione ma razionalmente, come può amare un sostituto procuratore del re, e, oltre la bellezza, che era notevole, la signorina di Saint-Méran, la sua fidanzata, apparteneva a una delle famiglie più rispettate a corte, in quel tempo; e oltre l’influenza politica del padre e della madre che, non avendo avuto altri figli, poteva essere dedicata per intero al genero, portava anche cinquantamila scudi in dote al marito che, grazie alle speranze – parola atroce inventata dagli agenti matrimoniali – potenzialmente sarebbe potuta un giorno lievitare con un’eredità di mezzo milione. Tutti questi elementi nell’insieme componevano dunque per Villefort un quadro di felicità radiosa, al punto che gli sembrava che il sole fosse appannato quando contemplava a lungo la sua vita interiore con lo sguardo dell’anima.

[Nel testo: “Tous ces éléments réunis composaient donc pour Villefort un total de félicité éblouissant, à ce point qu'il lui semblait voir des taches au soleil, quand il avait longtemps regardé sa vie intérieure avec la vue de l'âme.”]


Alla porta trovò il commissario di polizia che lo aspettava. La vista di quell’uomo in nero lo fece subito scendere dal terzo cielo sulla terra materiale dove camminiamo; ricompose il volto nel modo che abbiamo visto e, avvicinandosi all’ufficiale di giustizia: «Eccomi, signore, – gli disse – ho letto la lettera. Avete fatto benissimo ad arrestare l’indagato. Ora datemi tutti i particolari che avete raccolto su di lui e sulla cospirazione.»
«Signore, della cospirazione non sappiamo ancora nulla, ma tutte le carte che gli sono state trovate addosso si trovano raccolte e sigillate onin un fascicolo, che è ora nel vostro scrittoio. Quanto all’uomo, come avete letto in quella lettera che lo denuncia, si chiama Edmond Dantès, è il secondo della trealberi Pharaon, che commercia cotone con Alessandria e Smirne, e appartiene alla casa Morrel e figli di Marsiglia.»
«Prima di servire nella marina mercantile ha servito nella marina militare?»
«Oh no signore, è molto giovane.»
«Quanti anni ha?»
«Diciannove o vent’anni al massimo.»
Essendo Villefort arrivato, seguendo la Grande-Rue, all’angolo di rue des Consuls, un uomo che sembrava aspettasse del suo passaggio gli venne incontro. Era il signor Morrel.
«Ah, signor Villefort! – esclamò il brav’uomo riconoscendo il sostituto – che bello incontrarvi. Pensate che si sta commettendo l’errore più strano, il più inaudito: è stato arrestato il secondo del mio bastimento, Edmond Dantès.»

[Nel testo: «Ah! monsieur de Villefort! s'écria le brave homme en apercevant le substitut, je suis bien heureux de vous rencontrer. Imaginez-vous qu'on vient de commettre la méprise la plus étrange, la plus inouïe: on vient d'arrêter le second de mon bâtiment, Edmond Dantès. »]

«Lo so, signore – disse Villefort – sto appundo entrando in casa per interrogarlo.»
«Ah, signore – continuò il signor Morrel trasportato dalla sua amicizia per il giovane – voi non conoscete l’accusato, io invece lo conosco bene. Immaginate l’uomo più tranquillo, l’uomo più onesto e oserei anche dire l’uomo che conosce meglio il mestiere in tutta la marina mercantile. Oh, signor di Villefort, ve lo raccomando caldamente di tutto cuore!»
Villefort, come abbiamo potuto vedere, apparteneva al partito più nobile della città, Morrel invece al partito popolare; il primo era ultrarealista, il secondo sospettato di segreto bonapartismo. Villefort guardò sdegnosamente Morrel e gli rispose con freddezza:
«Sapete bene che si può essere dolci nella vita privata, onesti nelle relazioni commerciali, periti nel proprio mestiere e ciononostante essere colpevoli di gravi reati, politicamente parlando… lo sapete, non è vero?»
E il magistrato calcò la voce su queste ultime parole, come se si stesse riferendo all’armatore stesso, mentre con il suo sguardo penetrante sembrava voler giungere fino in fondo al cuore di quell’uomo abbastanza ardito da intercedere per un altro, quando sapeva che a lui stesso serviva una preghiera di indulgenza. Morrel arrossì, perché non si sentiva la coscienza pulita in fatto a opinioni politiche, e del resto la confidenza che Dantès gli aveva fatto sul suo colloquio con il gran maresciallo e sulle poche parole che gli aveva rivolto l’imperatore gli turbavano l’animo. Comunque aggiunse, con l’accento di profondo interesse:
«Vi supplico, signor Villefort, siate giusto come dovete essere e buono come siete sempre, restituiteci presto il povero Dantès!»
Quel restituiteci suonò come rivoluzionario all’orecchio del sostituto procuratore del re.
“Eh, eh! – si disse sottovoce – restituiteci... questo Dantès potrebbe forse essere affiliato a qualche setta di carbonari, altrimenti perché il suo protettore userebbe senza pensarci la formula collettiva? È stato arrestato in osteria, ha detto il commissario, e in numerosa compagnia anche: forse si tratta di una compravendita.” Poi disse all’armatore:
«Signore, potete stare assolutamente tranquillo, e questo appello alla mia giustizia non sarà stato vano se l’imputato è innocente. Se al contrario è colpevole, viviamo in tempi così difficili che l’impunità sarebbe un esempio fatale: nel caso, sarò obbligato a fare il mio dovere.»
Ed essendo arrivato alla porta di casa, accanto al palazzo di giustizia, vi entrò maestosamente dopo aver salutato con una gentilezza glaciale l’infelice armatore, che rimase come pietrificato là dove Villefort l’aveva lasciato. L’anticamera era piena di gendarmi e di agenti di polizia. Tra di loro, guardato a vista e circondato da sguardi d’odio, stava in piedi, calmo e immobile, il prigioniero. Villefort attraversò l’anticamera, gettò uno sguardo obliquo su Dantès e, dopo aver preso il fascicolo che gli stava passando una guardia, scomparve dicendo: «Portate il prigioniero.»
Per quanto rapido, lo sguardo bastò a Villefort per farsi un’idea dell’uomo che stava per interrogare. Aveva riconosciuto l’intelligenza in quella fronte larga e aperta, il coraggio nello sguardo fermo e nelle sopracciglia incupite e la franchezza nelle labbra spesse e semiaperte che lasciavano intravedere due file di denti bianchi come l’avorio. La prima impressione era quindi stata favorevole a Dantès, ma Villefort aveva sentito dire così spesso, come motto della migliore politica, che bisogna dubitare della prima mossa anche quando è buona, per cui applicò questa regola all’impressione avuta, senza tener conto della differenza tra le due parole.

[Nel testo: “La première impression avait été favorable à Dantès; mais Villefort avait entendu dire si souvent, comme un mot de profonde politique, qu'il fallait se défier de son premier mouvement, attendu que c'était le bon, qu'il appliqua la maxime à l'impression, sans tenir compte de la différence qu'il y a entre les deux mots.”]

Soffocò dunque i buoni sentimenti che cercavano di manipolare il suo cuore e offuscare la mente, assunse davanti allo specchio il portamento dei grandi processi e si sedette allo scrittoio cupo e minaccioso. Un istante dopo entrò Dantès. Il giovane era ancora pallido, ma calmo e sorridente. Salutò il suo giudice con gentilezza non simulata e con gli occhi cercò una sedia, come se fosse nell’ufficio del suo armatore. Fu solo allora che incontrò lo sguardo impassibile di Villefort, lo sguardo tipico degli uomini di palazzo che non vogliono si legga nel loro pensiero e fanno dei loro occhi vetro opaco. Quello sguardo gli fece capire che era davanti alla giustizia, con le sue oscure maniere.
«Chi siete voi, e come vi chiamate?» chiese Villefort sfogliando le note che l’agente gli aveva dato al suo arrivo e che in un’ora erano già voluminose, tanto la corruzione dello spionaggio si attacca ai corpi maltrattatti dei cosiddetti imputati.
«Mi chiamo Edmond Dantès, signore – rispose il giovane con voce calma e sicura – sono secondo a bordo del bastimento Pharaon, che appartiene alla casa Morrel e figlio.»
«La vostra età?» continuò Villefort.
«Diciannove anni.» rispose Dantès.
«Cosa stavate facendo al momento dell’arresto?»
«Ero al pranzo del mio fidanzamento, signore.» disse Dantès con la voce leggermente commossa, tanto era doloroso il contrasto tra quei momenti di gioia e la triste cerimonia che stava avvenendo e tanto il volto cupo del signor di Villefort faceva brillare per contrasto il volto splendente di Mercedes in tutta la sua luce.
«Eravate al pranzo del vostro fidanzamento?» disse il sostituto procuratore trasalendo senza controllarsi.
«Sì, signore, sto per sposare una giovane che amo da tre anni.»
Villefort, sebbene fosse ordinariamente impassibile, fu colpito profondamente dalla coincidenza e la voce commossa di Dantès, sorpreso nel mezzo della sua felicità, andò a toccare una fibra empatica nel profondo del suo cuore. Anche lui stava per sposarsi, anche lui era felice. La sua felicità era stata disturbata perché contribuisse a distruggere la gioia di un uomo che come lui già provava felicità!
“Questa somiglianza filosofica – pensò – farà un grande effetto al mio ritorno nel salotto del marchese di Saint-Méran” e già si costruiva, mentre Dantès aspettava nuove domande, i termini antitetici con cui gli oratori costruiscono quelle frasi sempre premiate da applausi e che a volte fanno pensare che chi le ha dette possieda davvero il dono dell’eloquenza. Finito il suo piccolo speech interiore, Villefort fu felice del suo effetto e, tornando a Dantès:
«Continuate, signore.» disse.
«Cosa volete che continui?» chiese Dantès.
«A illuminare la giustizia.»
«Che mi dica su cosa vuole essere illuminata, la giustizia, e io dirò tutto quello che so. Soltanto – aggiunse con un sorriso – premetto che so ben poco.»
«Avete servito sotto l’usurpatore?»
«È caduto quando stavo per essere arruolato nella marina militare.»
«Si dice che le vostre opinioni politiche siano estreme.» disse Villefort, al quale nessuno aveva detto niente a riguardo, ma che non poté fare a meno di fare la domanda come si formula un’accusa.
«Le mie opinioni politiche, signore? Mie? Dirlo è quasi vergognoso, ma non ho mai avuto ciò che si dice un’opinione politica. Ho diciannove anni, come ho avuto l’onore di dirvi. Non so niente, non sono destinato ad avere alcuna carriera, il poco che sono e sarò, se avverrà quanto io desidero, lo dovrò soltanto al signor Morrel. E tutte le mie opinioni, non politiche ma private, si limitano a questi tre sentimenti: amo mio padre, rispetto il signor Morrel e sono innamorato di Mercedes. Ecco, signore, quello che posso dire alla giustizia: vedete che può interessarla assai poco.»
Intanto che Dantès parlava, Villefort scrutava il suo volto dolce e aperto e sentiva tornare alla memoria le parole di Renée che, senza conoscere l’imputato, gli aveva chiesto clemenza. L’esperienza che aveva a parlare di delitti e con delinquenti, il sostituto riconosceva in ogni parola di Dantès la prova della sua innocenza. In effetti quel giovane, che si poteva ancora dire un ragazzo, era semplice, ingenuo, eloquente di quell’eloquenza spontanea che non si trova mai quando si cerca, pieno di affetto per tutti perché era felice, perché la felicità rende buoni anche i più malvagi, versava sul giudice la dolce affabilità che riempiva il suo cuore. Nello sguardo, nella voce, nei gesti di Edmond c’erano soltanto affabilità e dolcezza per chi lo stava interrogando, per quanto sgarbato e severo fosse stato con lui Villefort.
“Ecco – disse tra sé e sé Villefort – un bravo ragazzo, e non farò molta fatica, spero, a rispettare la raccomandazione di Renée. Mi frutterà una calorosa stretta di mano davanti a tutti, e uno sfuggente bacio di nascosto.”
Di fronte a queste speranze, il volto di Villefort si rischiarò così che, quando tornò dai suoi pensieri a Dantès, che aveva seguito tutti i mutamenti di espressione del sostituto procuratore, il giovane era tranquillo quanto quei pensieri.
«Sapete che avete dei nemici?»
«Io, dei nemici? – disse Dantès – ho la fortuna di essere ancora molto in basso perché la mia posizione me ne attiri. Quanto al mio carattere forse un po’ troppo vivace, ho sempre cercato di addolcirlo verso i miei subordinati. Ho dieci o dodici marinai ai miei ordini: vengano pure interrogati e vi diranno che mi amano e mi rispettano, se non come un padre perché sono ancora troppo giovane, come un fratello maggiore.»
«Bene. – continuò Villefort – Magari, vediamo… invece che dei nemici, potrebbero esserci degli invidiosi, o dei gelosi. State per essere nominato capitano a diciannove anni, ed è un posto elevato nella vostra condizione. State per sposare una bella donna che vi ama, ed è un bene assai raro in qualsiasi situazione. Questi due regali del destino potrebbero avervi procurato delle invidie.»

Forse riusciamo a fare solo due puntate per questo capitolo, essendoci organizzati meglio... Fateci sapere com'è secondo voi. A presto!

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